Liberazione, la trappola del revisionismo

Anche se da qualche anno istituzioni, associazioni dei partigiani e dei deportati, comunità religiose, sindacati hanno trovato un sobrio equilibrio istituzionale per la celebrazione del 25 aprile, a Trieste le polemiche non mancano mai.
Trovo peraltro singolare quella di Stelio Spadaro, che ha proposto su “Il Piccolo” del 26 una riedizione della teoria degli “opposti estremismi” applicata alla storia. Da un lato l’intitolazione di una via a Mario Granbassi, decisa dalla Giunta comunale di Trieste, dall’altro la parallela decisione del Consiglio comunale di Lubiana di intitolarne una a Tito. La teoria di Spadaro è che la parte della città che si è opposta alla scelta triestina, dovesse fare altrettanto per quella di Lubiana.
Mi permetto di porre due obiezioni preliminari, di puro buon senso. Innanzitutto l’improponibilità del paragone dal punto di vista “storico”: da un lato un giornalista, noto in verità solo a pochi, volontario alla guerra di Spagna dalla parte dei franchisti. Dall’altro un capo di stato, apprezzato e sostenuto per decenni dall’Occidente quale esempio di autonomia dall’Urss, che – comunque la si pensi su mezzi ed obiettivi – seppe combattere e liberare la propria patria dal nazifascismo. In secondo luogo l’opposizione alla via Granbassi si limita all’ambito cittadino, senza coinvolgere rapporti tra Paesi. Non mi risulta che da Lubiana qualcuno abbia obiettato sulla scelta triestina: lo hanno fatto però – come ricordò Claudio Magris sul “Corriere” del 26 ottobre 2008 – molti spagnoli, in particolare cittadini della Catalogna, che subì gravi perdite nella popolazione civile a causa dei bombardamenti dell’aviazione fascista.
Ma il punto non è qui. Il ragionamento di Spadaro sollecita una condanna, allo stesso modo e sullo stesso piano, di fascismo e comunismo. Ora, non c’è dubbio che il comunismo si sia macchiato di nefandezze e crimini che nessuno nega. E che, intrecciato al nazionalismo, sia stato all’origine di fatti esecrabili e dolorosi che qui hanno colpito concretamente tante famiglie e pesano come un macigno nella memoria. Come nessuno nega – credo e spero – decenni di violenze fasciste ai danni delle popolazioni slovene e croate e una politica di snazionalizzazione aggressiva e violenta che costituì il volto col quale lo Stato italiano si rapportò con quelle popolazioni. Ma ciò non legittima, sul piano storico e su quello politico, una condanna generica e indistinta dei due “totalitarismi”, né giustifica quel riflesso condizionato che spinge, ogni volta che si analizzano specifiche responsabilità del fascismo, a richiamare meccanicamente quelle del comunismo. Lo sosteneva con chiarezza ancora nel 1996 Vittorio Foa, che comunista non è mai stato, nel suo volume “Questo Novecento”, di cui in questi giorni esce una riedizione, mettendo in luce come per i milioni di oppressi e sfruttati di tutto il mondo il comunismo rappresentasse una domanda di liberazione, la volontà di libertà, l’aspirazione all’ uguaglianza, alla giustizia sociale. E come si trattasse di una discriminante decisiva che distingueva le forze in campo e ne rendeva radicalmente diverse le prospettive.
Il nazismo e il fascismo – che, è bene ricordarlo, ne fu complice ed alleato – misero in campo un’ideologia aberrante di superiorità della razza che portò allo sterminio degli ebrei, alla volontà di soppressione fisica di tutti i “diversi”, al tentativo di ridurre in schiavitù il mondo attraverso la guerra. E’ bene tener ferma questa distinzione. Altrimenti, come sostiene Magris nell’articolo citato, c’è il rischio che il revisionismo storico diventi la caricatura di se stesso.