Crisi e ottimismo, le amnesie di Confindustria

L’ottimismo è sicuramente è una condizione necessaria per avere una visione di prospettiva. Ma francamente mi pare che il centro studi di Confindustria esageri, indicando non una, ma cinque ragioni per essere ottimisti. Mi sembra innanzitutto stravagante affermare che non ci troveremmo di fronte a una depressione, ma a un periodo di crescita dell’economia globale. Forse Confindustria dispone di dati segreti sopravvaluta lo sviluppo delle nuove economie. In ogni caso nella più grave crisi del secolo non vale la logica del pollo, ma gli equilibri delle economie interconnesse e i fattori geopolitici, e francamente è difficile sostenere che Ue e Usa non siano in recessione.
In controtendenza poi la valutazione positiva sul manifatturiero italiano. Certo, siamo tutti d’accordo che va difeso e rafforzato con una politica industriale che il Governo non ha ancora messo in campo: ma si tratta di cosa diversa dal dire che tutto va bene. Forse che Fiat, Ilva, Sulcis, Alcoa o, per restare in Fvg, Romanello, Ferriera di Trieste e Sertubi sono casi isolati? Altro motivo di ottimismo starebbe nel mutamento ideologico delle imprese negli ultimi anni. Siccome a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, temiamo ci si riferisca al modello di relazioni sindacali, magari assumendo a riferimento Marchionne.
Infine, serviranno “le riforme”, che potrebbero triplicare la crescita. Ci si dimentica però di dare ad esse  nome e cognome tenendo conto che su pensioni, mercato del lavoro, tagli alla sanità e alla scuola il governo ha già fatto abbastanza danni. Sulle “vie della crescita” invece siamo d’accordo: diversificazione produttiva, innovazione, qualità del prodotto, sviluppo delle reti di vendita, ricerca di nuovi mercati, valorizzazione delle risorse umane.
Mancherebbe all’appello la produttività. Peccato che su questi temi, accanto a un 30% di imprese virtuose, il 70% non abbia fatto nulla. Anzi, con una media di ore lavorate superiore a quella europea, il tasso medio annuo di crescita della produttività in Italia dal 1995 ad oggi è del 0,44% a fronte del 2,2% europeo. Ciò è dovuto al fatto che nel nostro paese quasi tutta la crescita si è ottenuta esclusivamente comprimendo il costo del lavoro, allargando il precariato e limitando all’essenziale la formazione professionale.
Infine, nessun cenno ai dati della disoccupazione e inoccupazione. La prima è ormai all’11%, pari a 2.764.000 persone, con un +33,5% su base annua e un drammatico +77% dal 2007. A questi dati si aggiungono quelli degli scoraggiati e cassintegrati, per un totale di 1.678.000 persone. La somma la lasciamo al centro studi. Fatto sta che da marzo il nostro tasso di disoccupazione è il più alto della Ue a 27. Per quanto riguarda infine la disoccupazione dei giovani dai 15 ai 24 anni, essa ammonta al 35,3%, con una crescita del 7,4% dallo scorso anno. Temo che abbiamo dato al centro studi qualche motivo per tenere a freno il proprio ottimismo. Per quanto ci riguarda, potremo cominciare ad essere ottimisti quando coglieremo un’inversione di tendenza in questi dati. Che dipendono certo dalla crisi ma anche dalla “via bassa” alla competitività scelta dal sistema delle imprese.
Franco Belci, segretario generale Cgil Fvg